Smart working e disabilità: la Cassazione segna un punto di svolta
La Corte di cassazione ha stabilito che i lavoratori con disabilità hanno diritto a un ambiente di lavoro compatibile con le loro esigenze e che lo smart working può essere imposto dal giudice come "accomodamento ragionevole", anche in assenza di un contratto specifico.
Il protagonista di questa vicenda è un dipendente ipovedente, impiegato dal 1997 nel settore del customer care di una grande azienda. Nonostante risiedesse a Pomigliano d’Arco, era stato assegnato alla sede di Napoli, rendendo ogni giornata lavorativa un vero ostacolo a causa della sua disabilità visiva. La sua richiesta di trasferimento nella sede più vicina è stata respinta dall’azienda con la motivazione che quella struttura fosse destinata solo a personale tecnico.
Sentendosi discriminato, il lavoratore ha fatto ricorso in tribunale e la Corte d’Appello di Napoli gli ha dato ragione, riconoscendogli il diritto a lavorare da remoto dalla sede più vicina alla sua abitazione.
L’azienda, però, ha impugnato la decisione, sostenendo che il trasferimento e lo smart working non potessero essere concessi senza una specifica previsione contrattuale (come indicato dalla legge 81/2017). Tuttavia, la Cassazione ha respinto il ricorso, sottolineando che il decreto legislativo 216/2003 impone alle aziende l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire ai lavoratori con disabilità pari opportunità e condizioni di lavoro eque.
La Corte ha evidenziato che il datore di lavoro non aveva valutato alternative come il lavoro agile, già ampiamente utilizzato durante la pandemia, e che questa soluzione non avrebbe comportato costi eccessivi. Lo smart working, dunque, non è un privilegio, ma un diritto quando rappresenta una soluzione equa e sostenibile.
Un Precedente Importante per il Lavoro Inclusivo
Questa sentenza rappresenta un passo avanti fondamentale per la tutela dei lavoratori con disabilità. La Cassazione ha chiarito che negare un accomodamento ragionevole equivale a una discriminazione diretta, e che l’onere della prova spetta principalmente al datore di lavoro, chiamato a dimostrare che il rifiuto non sia discriminatorio.
In un’epoca in cui l’inclusione nel mondo del lavoro è sempre più centrale, questa decisione fissa un principio chiaro: le aziende hanno il dovere di trovare soluzioni per garantire l’accessibilità al lavoro, perché nessun ostacolo burocratico o organizzativo può giustificare un trattamento ingiusto nei confronti delle persone con disabilità.
Di seguito la sentenza della Corte di Cassazione