Alla disabilità ci si sensibilizza da subito, sin dall’Asilo Nido

Redazione Prima Pagina Partanna

Ieri pomeriggio mio figlio mi dice: “ Ma perché dobbiamo chiamare alcune persone disabili o diversamente abili? Ma non sono come noi? Che hanno di diverso?”. Ho risposto che ero fiera di quella domanda perchè aveva ed ha ragione: non hanno niente di diverso, hanno solo, come tutti, esigenze personali che proprio perché personali differiscono da persona a persona. Questo scambio tra me e mio figlio mi ha portato a riflettere al punto da voler scrivere questo pezzo. Di fatto il nostro approccio con la disabilità, al netto di tecnicismi sanitari o amministrativi o legali, dipende molto da quello che abbiamo visto, sentito, percepito, sin dai primi anni di vita.

Non si impara da adulti ad approcciarsi alla disabilità tutt’al più si impara con la vita ad accoglierla in pieno o a girarsi dall’altra parte. Negli ultimi anni, merito alla rapidità con cui certe notizie o eventi si diffondono e alla crescente “esposizione” di disabili anche famosi, è cresciuta la nostra attenzione nei confronti delle disabilità. Passiamo molto tempo a chiederci se sia meglio usare i termini «disabile» o «diversamente abile», se sia il caso o meno di ricorrere a questi vocaboli o no; dove possibile (ma qui ancora la strada è molto molto molto lunga) adattiamo le strutture architettoniche per rendere accessibili gli spazi pubblici; creiamo (anche in questo caso siamo molto lontano dal traguardo) addirittura spiagge riservate alle persone con limitazioni motorie.

Ed eccoci di fronte al grande e fastidioso paradosso: nonostante tutta questa attenzione mediatica e culturale nei confronti delle disabilità siamo ancora molto lontani dalla vera inclusione sociale. Questo divario è costantemente confermato dalla presenza di barriere architettoniche ovunque, dalla difficoltà ad integrare sul serio un disabile nell’ambito di lavoro o a scuola, o quando un genitore si scontra contro una burocrazia infernale per ottenere quello che gli spetta di diritto. La disabilità è e deve essere parte integrante di una cultura basica, che fa parte di noi, che abbiamo involontariamente interiorizzato.

Per educare i bambini alla disabilità, il primo passo da fare è iniziare a concepire le diversità come una normale quotidianità. Significa che non dovrebbero esistere ingressi per chi può camminare e per chi non può, che tutte le altalene dovrebbero essere attrezzate per bambini con o senza disabilità motorie, che le strade e i marciapiedi dovrebbero essere percorsi in tutta tranquillità da chi può farlo sulle sue gambe allo stesso modo di chi, invece, ha bisogno di ausili di supporto.

Questo vuol dire. Sembra la cosa più facile al mondo eppure…Sensibilizzare i bambini alle disabilità significa eliminare qualsiasi tipo di «distanza» tra un individuo e l’altro trasferendo loro il messaggio che non esiste una «normalità» assoluta, che la vita è fatta di tante «diverse normalità» e che tutti abbiamo lo stesso legittimo e imprescindibile diritto di entrare in un edificio, di visitare un museo, di vivere uno spazio aperto, di accedere a un luogo pubblico, di giocare in un parco, di entrare in una pizzeria piuttosto che un’altra, di entrare da un barbiere o un altro senza che l’inaccessibilità decida o meno l’ingresso, di percorrere la stessa identica strada senza doverci spostare in una carreggiata dedicata.

E’ faticoso. Alla base di questo approccio non può che esserci una grande attenzione allo sviluppo emotivo dei bambini. In assenza di empatia ( questa grande sconosciuta!), difficilmente cresceremo degli adulti capaci di comprendere l’altro e di elaborare ideali personali nei confronti delle diversità. Allora coltiviamo empatia, rendiamola degnamente contagiosa.

Da dove partire per sensibilizzare i bambini alle disabilità? Secondo me, ed è solo un parere ovviamente, bisognerebbe già dal nido educare alla diversità. Proseguire all’infanzia e non fermarsi più. Fare letture ed attività ad hoc. Esistono giochi e attività per abituare i bambini a considerare normale qualsiasi diversità. Basta fare un giro sul web (l’ho fatto davvero quel giro), che è pieno di buone proposte. Ovviamente la scuola può seminare, può stimolare, può muovere dei passi ma da sola non ha dove andare. Lo stesso dicasi per un famiglia, se si muove da sola non ha dove andare.

Qualsiasi attività non può colmare, da sola, i vuoti lasciati da un approccio esclusivo. I bambini non nascono con la consapevolezza che qualcuno possa essere diverso dall’altro; la verità è una, così come imparano a parlare una lingua dagli adulti allo stesso modo imparano a giudicare, a tollerare, ad accogliere o a escludere. Finché all’interno di un qualsiasi edificio ci saranno bagni per persone normodotate e bagni per persone con disabilità, non possiamo pretendere che le future generazioni crescano senza concepire una divisione netta tra ciò che è considerato «normale» e ciò che è considerato «diverso» a causa di una minoranza numerica e statistica.

Ma non voglio essere pignola e antipatica quindi dico che passi il bagno «personalizzato», che per questioni di logistica degli spazi può, in molte situazioni, essere già considerato un grande risultato. Evitiamo almeno qualsiasi altra situazione che possa far percepire ai bambini un trattamento diverso nei confronti di un singolo, anche se questo può voler dire prevedere attività diverse da quelle che si svolgerebbero in una classe in cui tutti possono camminare, correre, vedere, sentire, parlare.

A questo punto, penso ad alcune affermazioni che nel tempo ho sentito in merito a genitori di fronte a classi con disabili: avere un compagno con disabilità può diventare un limite per gli altri bambini? Sostengo con forza, NO. Tutt’altro. Ed è per questo motivo che è importantesensibilizzare gli adulti, ancora prima dei loro figli, spiegando che crescere insieme a persone con disabilità mentali o fisiche è un’occasione in più per diventare persone migliori, dotate di grande sensibilità e umanità nei confronti del prossimo.

Ben vengano gli incontri con la diversità, ben vengano le critiche sulle barriere architettoniche, ben vengano le riflessioni serie. Svegliamoci…è ora. Cominciamo a guardare paesi più bravi di noi ed emuliamoli…

Maria Elena Bianco